IL LIBRO

Il ponte sulla Drina (titolo originale: На Дрини Ћуприја, traslitterato: Na Drini Ćuprija) è un romanzo scritto da Ivo Andrić tra il 1942 e il 1943 e pubblicato nel 1945, pochi mesi dopo la fine della seconda guerra mondiale. Fu il romanzo d’esordio di Andrić, che fino ad allora aveva scritto e pubblicato solo numerosi racconti brevi.
Il romanzo è caratterizzato da una prosa lenta ma vigorosa e da uno svolgimento che abbraccia diversi secoli: la trama si svolge infatti partendo dall’inizio del XVI secolo e giungendo fino alla prima guerra mondiale.
Il protagonista del romanzo è il ponte sul fiume Drina (Ponte di Mehmed Paša Sokolović) situato nella cittadina di Višegrad, località che si trova nella parte orientale della Bosnia, al confine con la Serbia. Il ponte fu costruito su ordine di Mehmed Pașa Sokolovič, che da ragazzino fu rapito dalla zona di Višegrad (1516) e portato a Istanbul dove, dopo anni di addestramento militare, vestì dapprima la divisa dei giannizzeri (il cosiddetto devșirme, una pratica assidua durante il dominio dell’Impero ottomano) e divenne poi visir, inviato durante il regno di Solimano il Magnifico nella zona di origine.
Tramite una serie di racconti e aneddoti ambientati sullo sfondo e spesso sopra il ponte, Andrić traccia la storia di Višegrad e della Bosnia stessa, area costantemente al confine tra Impero ottomano ed Europa, tra cultura orientale e religione musulmana e cultura occidentale e cristiana.
Il romanzo è considerato da alcuni una lettura importante per la comprensione della storia della ex-Jugoslavia.

LA TRAMA

tratto da Dizionario Bompiani delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte le letterature, Bompiani

Vero protagonista del romanzo è il ponte, che congiunge non soltanto le due rive della Drina ma i destini umani di tutti gli abitanti di Višegrad, a qualsiasi religione essi appartengano. Si susseguono le generazioni, ma il ponte resta, testimone di grandi avvenimenti storici e di piccoli drammi quotidiani, delle gioie e delle sofferenze degli uomini. Nelle sofferenze, musulmani, cristiani ed ebrei sviluppano quelle forme di tolleranza e di solidarietà sulle quali si fonda la loro convivenza. Il ponte è dunque il simbolo dell’intera città, anzi di tutta la Bosnia, dove elementi culturali ed etnici assai diversi si sono avversati per secoli prima di giungere a costituire un’unità abbastanza compatta.»
Chi ordina di erigere il ponte è Mehmed Pascià Sokolović, un nobile musulmano nato nei dintorni della città, che, condotto in Turchia ancora fanciullo, ha fatto carriera a corte sino a diventare gran visir e genero del sultano. La direzione dei lavori viene affidata allo spietato Abidaga, il quale impone gravosi sacrifici alla popolazione locale e in particolare ai cristiani, costretti a lavorare come schiavi, senza retribuzione e spesso persino senza cibo. A questa situazione intollerabile si ribella uno dei lavoratori forzati, Radisav di Unište. Nella speranza che i turchi rinuncino alla realizzazione del loro progetto e se ne vadano, egli demolisce nottetempo ciò che si è costruito di giorno, ma è presto catturato e condannato a un atroce supplizio: lo impalano e lo lasciano agonizzare per due giorni in un punto ben visibile del cantiere, come terribile monito per quanti siano stati tentati di seguirne l’esempio. Mehmed Pascià viene però informato delle crudeltà e dei ladrocini perpetrati dal suo rappresentante e, dopo averlo punito costringendolo a restituire il maltolto ed esiliandolo in una sperduta località dell’Anatolia, lo sostituisce con Arifbeg, uomo rigoroso e severo ma onesto.
Il nuovo fiduciario elimina subito i sistemi schiavistici instaurati dal suo predecessore e la costruzione, ora affidata a uomini regolarmente retribuiti e nutriti, procede con ben maggiore alacrità. Il ponte è finalmente ultimato nel 1571 e diventa per i višegradesi un elemento familiare della loro esistenza: “Nella successione delle trasformazioni e nel celere fiorire delle generazioni umane, esso restò immutabile come l’acqua che gli scorre sotto. Invecchiò naturalmente anch’esso, ma secondo una scala cronologica assai più ampia non solo della vita umana, ma anche della durata di intere serie di generazioni, tanto ampia che, a occhio nudo, non si poté notare quell’invecchiamento. La sua vita, benché di per sé stessa mortale, rassomigliò all’eternità, perché la sua fine rimase oltre la portata della vista”.
Il romanzo continua descrivendo i principali avvenimenti seguiti alla costruzione del ponte: l’alluvione del 1799 che induce musulmani, cristiani ed ebrei a dimenticare temporaneamente le discordie religiose e a unirsi in un clima di fratellanza per fronteggiare la sventura comune; la rivolta di Karagjorgie, scoppiata nel 1804 e sfociata poi nell’indipendenza della Serbia, nel corso della quale vengono esposte sul ponte le teste impalate dei fautori dei ribelli, tra i quali Jelisije di Čajnice, un vecchietto un po’ svanito che passava di lì per caso, e Mile di Lijeska, un ragazzo sorpreso a cantare strofette antigovernative. Poi una pestilenza che porta a sospendere il traffico sul ponte per impedire la diffusione del contagio; e la tragica morte della bella Fatima, costretta da motivi d’interesse a sposarsi contro la propria volontà e gettatasi nella Drina il giorno delle nozze.
All’inizio del 1878 passano per Višegrad le truppe turche in ritirata, poiché in seguito al trattato di Berlino la Bosnia è ora occupata dagli austriaci; sul ponte si intrecciano accese discussioni, e il focoso Osman Karamanlija fa inchiodare per l’orecchio destro a un palo il pacifico Alihodža Mutelević, reo di non condividere le sue opinioni.
Con l’arrivo degli austriaci, inizia per la città una nuova vita: spariscono lentamente ma inesorabilmente le antiche usanze musulmane; mutano l’aspetto esteriore delle strade, le abitudini di vita, le consuetudini di lavoro, le norme amministrative e fiscali; sull’orologio di Višegrad suona insomma l’ora del progresso. Intanto il ponte continua a essere teatro di episodi singolari: l’allucinante partita a “trentuno” tra l’accanito giocatore Milan Glasinčanin e un misterioso straniero che si scopre essere il diavolo e che deve rinunciare a riscuotere la vincita, cioè l’anima e la vita dell’avversario, per scomparire al primo canto del gallo; o la tragedia di Gregor Fedun che, di guardia sul ponte per arrestare un pericoloso bandito, se lo lascia sfuggire sotto gli occhi travestito da vecchia e, deferito alla corte marziale, si uccide per sfuggire al disonore.
E la città si fa sempre più moderna e ricca. Vi affluiscono in gran numero bottegai stranieri, soprattutto ebrei polacchi come Caler, il proprietario dell’”Albergo al ponte”, diretto dalla sua bellissima cognata Lotika e frequentato da funzionari e ufficiali austriaci nonché da giovani della borghesia musulmana. I višegradesi poveri vanno invece all’osteria di Zarija, dove è di casa Čorkan, lo scemo del paese, che tutti prendono spietatamente in giro per i suoi folli amori.
I primi anni del XX secolo vedono il collegamento di Višegrad con la ferrovia, il formarsi di un gruppo di studenti socialisti e l’annessione dell’intera regione all’Impero austroungarico. Il ponte è sempre luogo d’incontro: vi si discutono gli avvenimenti politici e i problemi sociali, e vi sbocciano intrighi amorosi non sempre a lieto fine. Si arriva così al 1914 e allo scoppio della prima guerra mondiale. Il giorno di san Vito, come tutti gli anni, le associazioni serbe organizzano una merenda all’aperto, ma mentre la gente balla e canta, i gendarmi portano la notizia dell’attentato di Sarajevo. La festa è interrotta e anche per Višegrad incominciano giornate grigie e pesanti. Gli arresti dei serbi, le fughe dei giovani, le esecuzioni delle spie o delle persone ritenute tali divengono avvenimenti consueti. Poi la guerra si avvicina. Mentre si sentono rombare i cannoni, alcuni degli abitanti sgombrano, altri si asserragliano nelle proprie case, cercando di aiutarsi a vicenda. Infine, sotto l’incalzare dell’offensiva serba, gli austriaci sono costretti a ritirarsi, ma prima di abbandonare la città fanno brillare una mina posta da tempo sotto uno dei pilastri centrali del ponte. Chi vede per primo lo scempio è il vecchio cantastorie Alihodža che ne muore di dolore.

L’INCIPIT

“Per la maggior parte del suo corso il fiume Drina s’apre la strada attraverso anguste gole tra scoscese montagne o attraverso profondi cañon dai fianchi a picco. Soltanto in alcuni tratti le sue sponde si allargano in aperte pianure per formare, su una o su entrambe le rive, distese solatie, in parte piane, in parte ondulate, atte a essere lavorate e abitate”

L’AUTORE

Tratto da “Le letterature della Jugoslavia” di Bruno meriggi, edito da Sansoni, 1970

Su un largo arco ti tempo si distende l’attività letteraria di Ivo Andrić, la cui rinomanza ha largamente oltrepassato i confini della Jugoslavia. Nato a Travnik nel 1892, dopo avere compiuto gli studi elementari a Vigegrad, frequentò a Sarajevo il ginnasio-liceo; segui poi i corsi della facoltà di lettere e filosofia a Zagabria, Vienna, Cracovia e Graz, ove consegui anche il titolo di dottore nel 1923. Entrato nel servizio diplomatico jugoslavo, soggiornò a Roma, Bucarest, Madrid, Ginevra, Berlino. Trascorse poi gli anni della seconda guerra mondiale a Belgrado, in operoso ritiro da pubbliche attività, lavorando ad opere che gli valsero il riconoscimento internazionale del premio Nobel, il quale fu conferito allo scrittore nel 1961.

I primi scritti di Andrić — articoli e poesie — risalgono al 1911, e sono animati da sentimenti patriottici. Dopo avere sofferto la prigionia e il confino durante la guerra 1915¬18 a causa della sua attività irredentistica, al termine del conflitto lo scrittore raccolse i propri pensieri sulla tragedia che aveva sconvolto il mondo in due libri di meditazioni, pervasi da un senso di profonda solidarietà verso quanti avevano sofferto, Ex ponto (1918), e « Inquietudini » (Nemiri, 1920).

Con « Il viaggio di Alija Derzelez » (Put Alije Derzeleza, 1920), che fu il suo primo racconto, Andrić mostrò già quali fossero i suoi interessi letterari e quali sarebbero state le specifiche peculiarità della sua narrativa: un’attenta, amorevole contemplazione della vecchia Bosnia, con tutti i suoi contrasti e i suoi incroci di razze e fedi diverse, un atteggiamento sereno e tollerante verso chiunque, un pacato ma intenso sforzo, mirante a comprendere ogni azione umana attraverso un paziente studio psicologico. Le medesime caratteristiche si ritroveranno nei tre volumi di « Novelle » (Pripovetke), pubblicati rispettivamente nel 1924, nel 1931 e nel 1936, nelle « Nuove novelle » (Nove pripovetke) del 1948, nei « Volti » (Lica), del 1960. Anche in queste successive raccolte il centro di gravità si trova nella natia Bosnia. Qualsiasi trama, ispirata solitamente dalla vita quotidiana di umile gente, di popolani e di abitanti di villaggi e paesetti, serve allo scrittore per porre in risalto questo o quell’aspetto caratteristico della sua terra: l’incontro, il contrasto e la convivenza di religioni differenti, la difficile, ma non impossibile confluenza di abitudini e di costumanze risalenti a varie tradizioni in un amalgama abbastanza compatto, anche se eternamente turbato da scosse, da fremiti, da ribollimenti, l’intrecciarsi di sorti umane sconvolte da passioni, sulle quali predomina quella amorosa. Un respiro più ampio, tra i racconti di Andric, assume « Il cortile maledetto » (Prokleta avlija), del 1954. Vi si narra la storia delle esperienze fatte da fra’ Pietro in una prigione di Istambul, in un tempo « oscuro ». Il frate è stato ingiustamente sospettato di spionaggio, e attorno si vede ruotare tutta una schiera di infelici, in mezzo ai quali grandeggia la tragica figura di Camil Effendi: accusato di tradimento, e inviato nel « Cortile maledetto » per accertamenti, sottoposto ai duri sistemi di inquisizione, egli finisce per confessare colpe che non ha: ammette perfino di essere Dzem, un sultano spodestato, cui il trono spetta di diritto. Durante un interrogatorio, inoltre, viene a diverbio con gli inquirenti; ne deriva una mischia dopo la quale non si sa più nulla di preciso di Camil: forse è stato trasferito in una prigione per alienati mentali, forse è stato addirittura segretamente assassinato.

Andric è, tuttavia, soprattutto l’autore dei tre romanzi, tutti quanti editi per la prima volta nel 1945. « La signorina » (Gospodica) è accentrato sull’analisi psicologica di Rajka Radakovic, figlia di Obren, un agiato uomo d’affari di Sarajevo, che la lascia orfana in tenera età, stroncato da una malattia di cuore, dopo che i suoi affari sono andati in rovina per motivi non ben precisati, ma comunque a causa della sua onestà e della sua correttezza. Sul letto di morte, Obren Radakovic si fa promettere dalla figlia che ella baderà costante- mente ai propri interessi, senza lasciarsi mai prendere dalla pietà e senza lasciarsi sviare da sentimenti nobili di alcun genere, e che cercherà di accumulare ricchezze e di risparmiare quanto più le sarà possibile, senza avere riguardi per niente e per nessuno. Rajka dimostra immediatamente di avere un carattere forte e risolutamente spietato: prende saldamente nelle proprie mani le redini dell’amministrazione casalinga, esautorando sempre più la madre, una donna dolce ma debole, impone radicali diminuzioni su tutte le spese, si ritira sempre più aspramente nel suo chiuso egoismo. Tutti la aiutano a risolvere i problemi lasciati aperti dalla morte di Obren, ma lei sembra sfuggire quasi con stizza l’amicizia di ognuno. L’intera sua vita sarà poi una continua corsa al denaro, un’esistenza arida e spietata nella quale i sentimenti non avranno alcun posto — l’unico suo timido tentativo di legarsi sentimentalmente a un avventuriero si concluderà in una cocente delusione — e « la signorina » morirà solitaria, ricca e infelice, sospettosa di tutto e di tutti. Un giorno, rincasando col cappotto tutto bagnato di pioggia, lo mette ad asciugare su un attaccapanni del vestibolo; poi sbriga le proprie faccende e, verso sera, si ferma presso la finestra a fantasticare sui suoi ricordi. Intanto si è fatto buio; prima di accendere la luce per aggiungere un po’ di carbone nella stufa, Rajka va a controllare che la porta di casa sia chiusa, e, passando a tentoni per l’anticamera, tocca improvvisamente con le mani il soprabito bagnato. Non ricorda più che quello è il suo cappotto, e la persuasione di essere alla presenza di un ladro la terrorizza al punto da farla cadere a terra, preda di una crisi cardiaca. Muore senza avere neppure la forza di invocare aiuto, il suo cadavere verrà scoperto soltanto qualche giorno dopo, dal postino.

Concentrato sul personaggio della fosca protagonista, il romanzo — scritto in una prosa accuratissima, dal ritmo pacato e grave, che, con la sua stessa lentezza, sembra esprimere tutto lo squallore dell’esistenza di Rajka — disegna il carattere della « signorina » analizzando minuziosamente i moventi psicologici, ma, nel medesimo tempo, si diffonde a descrivere con acuta sensibilità l’ambiente politico e sociale nel quale la vicenda si svolge: particolarmente significative, in questo senso, sono le pagine dedicate alla posizione dei serbi a Sarajevo, durante la prima guerra mondiale, e la raffigurazione del particolare clima spirituale di Belgrado nell’immediato dopoguerra.

La trama de « La cronaca di Travnik » (Travrticka hronika) è tutta imperniata sulle schermaglie, i reciproci inganni, le astuzie, la difficile convivenza, le mosse e gli interventi di due consoli, l’uno francese e l’altro austriaco, i quali, all’inizio dell’Ottocento, combatterono una singolare guerra diplomatica sforzandosi di guadagnarsi, ciascuno per il proprio governo, il favore delle autorità ottomane, nell’ambito di più ambiziosi piani di politica egemonica in Europa. Lo scontro ebbe luogo a Travnik, città bosniaca che ebbe una grande importanza al tempo della dominazione turca, essendo residenza di un visir, e, in quanto tale, centro sul quale si appuntarono pure gli occhi delle principali potenze europee.

Ciascuno dei due contendenti cerca di accattivarsi l’appog­gio e le simpatie delle autorità locali, ma le missioni dei due funzionari si svolgono in mezzo a grandissime difficoltà, sullo sfondo di un mondo orientale misterioso, tendenzialmente ostile a qualsiasi novità giunta dall’Occidente, indiscrimina­tamente catalogata come frutto di astute macchinazioni degli infedeli, un mondo arcaico e conservatore, impenetrabile nel­la sua massiccia inerzia. A Travnik pervengono anche gli echi lontani delle battaglie che sconvolgono l’Europa, dei trattati e delle intese che, di mese in mese, alternano i rapporti di forze esistenti e mettono in forse l’instabile equilibrio con­tinentale, nonché quelle degli arcani eventi e delle congiure di palazzo che minacciano le traballanti strutture dell’impero del sultano, ormai in decadenza e prossimo alla sua fine. Ma i riflessi di tutti questi avvenimenti giungono sbiaditi o si per­dono completamente nell’atmosfera bosniaca che, come in una specie di ovattato torpore, assorbe e assimila gli impulsi este­riori, smussandone l’asprezza e diminuendone l’intensità.

Il console francese, Jean Daville, convinto bonapartista animato da certe ambizioni letterarie che, col passare del tem­po, andrà a poco a poco ricredendosi sulla bontà della causa di Napoleone, arriva a Travnik nel 1807, accolto dalla aperta ostilità della popolazione musulmana, dalla diffidenza dei frati fancescani che scorgono in lui un esponente del ra­zionalismo giacobino ed ateo, e dalla sconcertante e fredda cortesia delle autorità turche. Dopo qualche tempo giunge in città pure il console austriaco, il colonnello Joseph Von Mitterer, che verrà in seguito sostituito dal tenente colon­nello Von Paulic. L’inviato dell’imperatore d’Austria trova, anche egli, l’aperta ostilità dei musulmani locali, ma stabili­sce contatti col visir, con gli ecclesiastici cattolici i quali gli manifestano immediatamente la loro amicizia, ed infine anche col suo collega francese. Questi sono gli elementi principali della storia, che però si allarga fino a trasformarsi in un com­pleto affresco della vita e della problematica di Travnik fino al 1814, anno in cui i due consolati, ormai privi del loro si­gnificato, vengono chiusi.

Umanissimi risultano tutti i personaggi del romanzo. Dietro i protagonisti si muovono figure di contorno e la massa anonima formata da una popolazione rozza, incolta, diffidente, facile alle ire e agli sbandamenti, av­vezza a sopportare con fatalistica rassegnazione le calamità na­turali e quelle provocate dagli uomini, ma sempre pronta a esplodere, in momenti e circostanze imprevedibili, in tu­multuosi impeti di rabbia, che tutto abbatte e travolge nella sua furia devastatrice. La scrittura maestosa e pacata, tipica di Andric, risulta in questo caso particolarmente efficace, spandendosi, con la morbi­dezza di un tessuto connettivo, tutto attorno ad una trama irta di asperità e di ruvidi ribollimenti; le pagine del roman­zo, ora fosche, ora serene, ora crudeli, ora riposanti, ma sem­pre sobrie ed equilibrate, palpitano dolcemente d’amore per la Bosnia di un tempo, paese selvaggio, distante dalla civiltà moderna, mondo a sé stante, inattaccabile da qualsiasi in­flusso esterno, compiuto nella sua bellezza e fonte di incon­solabile nostalgia, quale appare ancora nella mente dei nota­bili musulmani, amareggiati per l’imminente arrivo dei con­soli stranieri: Da tempo, ormai, li tormenta e li preoccupa il sapere che la palizzata imperiale ai confini è marcia, e che la Bosnia sta di­venendo una terra in disfacimento, pestata non solo dagli ottomani ma anche dai giaurri di ogni parte del mondo, una terra in cui perfino gli infedeli levano spavaldamente la testa come mai hanno fatto prima di ora. Ed ecco che adesso debbono avventarsi contro di essa i consoli giaurri che faranno la spia, e che a ogni passo potranno liberamente esaltare la supremazia e la potenza dei loro imperatori. Cosf, a poco a poco, si giungerà alla fine di quel buon ordine e di quella « bella quiete » della Bosnia turca, che, anche senza queste novità, già da un pezzo è sempre piu difficile di­fendere e conservare.

Ne « Il ponte sulla Drina » (Na Dritti cuprija) si narra la storia del ponte che si erge sul fiume che attraversa Vise grad, cittadina della Bosnia al confine con la Serbia, e quella degli abitanti della regione, dalla fine del secolo XVI fino alla prima guerra mondiale. Il ponte venne costruito per impulso di Mehmed Pascià Sokolovic, un turcizzato nativo dei dintor­ni di Visegrad e gran visir, e la sua edificazione richiese non solo anni di duro lavoro, ma anche lagrime e sangue, sacrifici e vittime. Nel 1571, finalmente, esso fu ultimato insieme con un caravanserraglio nel quale avrebbero sostato i viaggiatori in transito, e l’opera architettonica cominciò a vivere la sua vita accanto a quella di Visegrad, assistendo a tutti gli eventi che in essa si svolsero:

Così sorse il ponte con la « porta » e cosi si sviluppò attorno ad esso la cittadina. Poi, per oltre trecento anni, il suo posto nello sviluppo della città e il suo rilievo nella vita degli abitanti furono quali li abbiamo sopra brevemente descritti. E il senso e il significato della sua esistenza sembrarono consistere nella sua stabilità. La sua splendida linea nella struttura della città non mutò, così come non mutarono i contorni delle montagne circostanti contro il cielo. Nella successione delle trasformazioni e nel celere fiorire delle generazioni umane, esso restò immutabile come l’acqua che gli scorre sotto. Invecchiò naturalmente anch’esso, però secondo una scala cronologica assai più ampia non solo della vita umana, ma anche della durata di intere serie di generazioni, tanto ampia che, a occhio nudo, non si potè notare quell’invecchiamento. La sua vita, benché mortale di per se stessa, rassomigliò all’eternità, perché la sua fine rimase oltre la portata della vista.

Dapprima il caravanserraglio andò in rovina a causa dell’incuria degli uomini, nel 1799 una rovinosa inondazione danneggiò gravemente numerose famiglie musulmane, ortodosse ed ebraiche, ma riuscì almeno ad affratellare, sotto il segno della comune sventura, gli abitanti appartenenti alle tre fedi religiose. Giunse poi il 1804, anno tempestoso, allorché scoppiò la rivolta di Karagjorgje, e sul ponte cominciarono ad apparire le teste dei giustiziati, sospettati, a ragione o a torto, di favorire i ribelli, come quel « vecchio derviscio infedele mattoide, scemo, bonaccione e innocuo », il quale:

… era arrivato portando con sé, come si porta una candela accesa, un grosso bastone sul quale erano dipinti strani segni e lettere. La ridotta lo inghiottì come fa il ragno con la mosca. Lo interrogarono per breve tempo. Gli chiesero di dire chi era, che cosa faceva e di dove veniva, e di spiegare i segni e le lettere sul bastone, ed egli rispose anche alle cose che non gli avevano chiesto, liberamente e apertamente, come parlasse dinanzi ad un vero tribunale divino, e non davanti ai malvagi turchi. Disse che non era niente e nessuno; un viandante sulla terra, un passante nel tempo fugace, ombra al sole, che trascorreva i suoi giorni brevi e poco numerosi nella preghiera, e andava di monastero in monastero, finché non avesse visitato tutti i luoghi santi, le opere pie e le tombe degli imperatori e dei grandi serbi; le immagini e le lettere del bastone indicavano certe epoche della libertà e della grandezza serba, passate e future. Poiché, aggiunse il vecchio, sorridendo con un sorriso mite e pieno di stupore, il tempo della resurrezione si avvicinava, e, a giudicare da quel che si leggeva nei libri e da quel che si poteva vedere in terra e nei cieli, era vicinissimo. Sarebbe risorto l’impero, riscattato dalle prove affrontate e fondato sulla giustizia.

« So che non vi piace ascoltare questo che sentite, signori, e che non dovrei neppure dire simili cose davanti a voi, ma voi m’avete fermato e mi chiedete di dirvi ogni cosa secondo verità, e non c’è nulla da fare. Dio è verità, e Dio è uno! Ed ora, vi prego, lasciatemi proseguire, poiché, ancora entro questa notte, debbo arrivare a Banja, monastero della Santa Trinità! »

Sopitasi la rivolta serba, il ponte venne chiuso al traffico per impedire che si diffondesse un’epidemia di peste, poi esso fu testimone del dramma della bella Fatima, la quale, costretta dal padre a sposare un uomo che non amava, scavalcò il parapetto e si gettò nel fiume, dove affogò. All’inizio del 1878 vi transitarono sopra truppe ottomane in ritirata, dato che la Bosnia veniva ceduta all’Austria senza combattere, poi la cittadina assunse un nuovo aspetto sotto l’amministrazione absburgica, e nuove singolari vicende, tragiche oppure comiche, si svolsero attorno al ponte, muto spettatore del fluire della vita umana e di eventi storici, che:

… continuava a stare, tale quale era da secoli, con la sua eterna giovinezza di perfetto disegno e di buona e grande opera umana, una di quelle opere che non conoscono vecchiaia e trasformazioni e che, almeno così sembra, non condividono la sorte delle cose transitorie di questo mondo…

… attraverso le sue bianche arcate scorreva la verde, luminosa e inquieta superficie della Drina, sf che l’insieme sembrava una straordinaria collana a due colori, sfavillante al sole.

Il 1900 portò a Visegrad la ferrovia, i primi anni del secolo XX gli studenti socialisti, e poi un avvenimento di grande importanza storica: l’annessione della Bosnia ed Erzegovina da parte dell’impero austroungarico. Il ponte continuò ad essere un luogo di incontro: su di esso si discutevano gli sviluppi politici, si dibattevano i problemi sociali. Si arrivò fino al 1914, l’anno dello scoppio della prima guerra mondiale. Cominciarono gli arresti dei serbi, le fughe dei giovani, le esecuzioni delle spie; ben presto la linea del fronte si avvicinò a Visegrad, ci furono duelli di artiglierie, e finalmente le truppe austriache dovettero ripiegare dinanzi all’incalzare dell’offensiva serba, ma, prima di battere in ritirata, fecero brillare una mina, facendo saltare in aria uno dei pilastri centrali del ponte, per ritardare l’avanzata degli avversari. E fu come se un cataclisma cosmico avesse cominciato a intaccare qualcosa che sembrava perenne, agli occhi di Alihodza, l’imano:

Hanno cominciato a intaccare le cose più solide e durevoli, hanno cominciato a prendere ciò che è di Dio. E chi sa dove si fermeranno! Ecco, perfino il ponte del visir comincia a sfilarsi come una collana; e una volta che la cosa è incominciata, nessuno la fermerà più. L’imano si arrestò di nuovo. Il respiro lo aveva abbandonato, e la salita s’era improvvisamente fatta piu erta davanti a lui. Dovette di nuovo calmare il cuore con una inspirazione profonda. E ancora riuscì a regolare il respiro, si rianimò e riprese a camminare speditamente.

Ma sia pure, continuò a pensare. Vi sono forse ancora, in qualche posto, paesi tranquilli e uomini ragionevoli, i quali sanno cosa sia il timore di Dio. Se Dio ha tolto la sua mano da questa sventurata cittadina sulla Drina, l’ha tolta forse anche da tutto il mondo o da tutta la terra che si trova sotto il cielo? Costoro non continueranno in eterno a comportarsi così. Ma chi lo sa? Può darsi che questa lurida fede che mette in ordine, pulisce, ripara e rifinisce ogni cosa per poi divorare e demolire tutto immediatamente dopo, debba diffondersi per tutta la terra; può darsi che dell’intero mondo di Dio farà un campo vuoto per le sue insensate costruzioni e per le sue barbariche distruzioni, un pascolo, per il suo insaziabile appetito e per le sue incomprensibili brame. Tutto può essere. Ma una cosa non può accadere: non può accadere che scompaiano del tutto e per sempre gli uomini grandi, saggi e generosi che per amore di Dio innalzeranno durevoli edifici, affinché la terra sia più bella e l’uomo vi possa vivere più facilmente e meglio. Se essi scomparissero, ciò significherebbe che anche l’amor divino si è spento ed è scomparso dal mondo. E questo non può succedere.

Ora si sente distintamente che nel mercato si canta. Se solo potesse inspirare più aria, se la strada fosse meno ripida e se potesse arrivare a casa, distendersi sul suo letto e vedere qualcuno dei suoi! Questa è l’unica cosa che ancora desidera. Ma non può. Non può più neppure mantenere il giusto rapporto tra la respirazione e i battiti del cuore, che ha completamente bloccato il respiro, come capita talvolta nel sonno. Ma qui non c’è alcun salutare risveglio. Spalanca la bocca e sente che gli occhi gli si staccano dalla testa. La salita, che fino a quel momento è andata sempre aumentando, si è avvicinata di colpo al suo volto. Tutta la sua visuale è ora occupata dalla dura strada in declivio, che si muta in tenebre e l’avvolge tutto.

Sull’erta che porta a Mejdan giaceva Alihodza, agonizzando in spasimi brevi.

Vero protagonista del romanzo è il ponte, che congiunge non solo due sponde di un fiume, ma anche i destini umani di quanti abitano a Visegrad e nella regione circostante. Mentre le generazioni si succedono, il ponte resta, testimone di vicende storiche e di minuti drammi quotidiani, attraverso i quali musulmani, ortodossi ed ebrei scoprono una amara eppure solidissima forma di fratellanza umana, e riescono ad elaborare modi di convivenza, di tolleranza e di solidarietà, sui quali si fonda la loro esistenza. Il ponte è dunque il simbolo dell’intera città, è il simbolo di tutta la Bosnia, ove elementi culturali e tradizioni differenti si sono avversati per secoli, fondendosi infine in un amalgama compatto, è il simbolo di tutta un’umanità sofferente, in cerca di comprensione, di incontro e di amore. Questo è, per l’appunto, il senso della mitica origine del ponte:

Quando Allah, il potente, ebbe creato questo mondo, la terra era piana e liscia come una bellissima padella di smalto. Ciò dispiaceva al demonio, che invidiava all’uomo quel dono di Dio. E mentre essa era ancora quale era uscita dalle mani divine, umida e molle come una scodella non cotta, egli si avvicinò di soppiatto e con le unghie graffiò il volto della terra di Dio quanto piu profondamente potè. Cosi, come narra la storia, nacquero profondi fiumi e abissi che separano una regione dall’altra, e dividono gli abitanti di una dalle altre, e disturbano coloro che viaggiano per la terra che Dio ha dato loro come giardino per il loro cibo ed il loro sostentamento. Si dispiacque Allah quando vide che cosa aveva fatto quel maledetto; ma poiché non poteva tornare all’opera che il demonio con le sue mani aveva contaminato, inviò i suoi angeli affinché aiutassero e confortassero gli uomini. Quando gli angeli si accorsero che gli sventurati uomini non potevano superare i burroni e gli abissi per svolgere le loro attività, e si tormentavano, si guardavano e si chiamavano invano vicendevolmente da una sponda all’altra, al disopra di quei punti spiegarono le loro ali e la gente cominciò a passare su di esse. Per questo, dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte, così come il peggior peccato consiste nel metterci addossole mani, dato che ogni ponte, dalla trave gettata su un torrente montano fino a questa costruzione di Mehmed Pascià, ha il suo angelo che lo guarda e lo sostiene, finché gli è destinato da Dio di sussistere.

La scrittura de II ponte sulla ‘Orina, forse meglio di qualsiasi altro lavoro, mette in luce tutti i pregi stilistici di Andric. Il periodare elegante, eppure denso, la frase comples­sa, eppure nitida, la potenza evocatrice della parola, conferi­scono a questa prosa una plasticità straordinaria ed un vigo­re eccezionale; i personaggi sono tutti vivi e palpitanti, il loro aspetto esteriore è disegnato con una amorevole cura che si sofferma sui più minuti particolari, la loro fisionomia psi­cologica appare precisa grazie ad una approfondita tecnica di analisi.

ALTRI LIBRI DELL’AUTORE PUBBLICATI IN ITALIA

La cronaca di Travnik. Il tempo dei consoli

Ambientato tra il 1806 e il 1814 nell’allora capitale della Bosnia ottomana, luogo di incontro di mille etnie e mille religioni, “La cronaca di Travnik” è il romanzo del confronto tra l’Occidente moderno che si va delineando e un mondo segnato dall’oppressione turca, dall’attaccamento alle tradizioni, dalla durezza dei luoghi e delle condizioni di vita. Opera di straordinaria lungimiranza e intelligenza storica, politica e letteraria, è un libro di tolstoiana grandezza, che restituisce la storia a un popolo che ne è stato privato e dà a noi oggi gli strumenti per capirla.

La signorina

È il racconto di una donna dominata dall’avarizia e da un giuramento fatto al padre, che la conduce tragicamente a una smania di ricchezza. La Signorina disprezza la vita e i suoi tumulti, barricata nella certezza dell’accumulazione, unico vero bastione contro gli eventi esterni. Il romanzo parte dalla storia personale di un’ossessione e ci racconta in maniera lucida e toccante la vita e il popolo jugoslavo nei primi decenni del Novecento: un calderone di etnie dove croati, serbi e bosniaci, musulmani, ebrei e cristiani hanno convissuto nei secoli.

In volo sopra il mare e altre storie di viaggio

Ivo Andric fu un grande viaggiatore. Il suo vagabondare attento e curioso coprì larga parte dell’Europa e alcuni paesi dell’Estremo Oriente. Da questi scritti esce una visione profonda della sua terra, allora ancora Jugoslavia, delle nostre radici europee e del secolo da lui attraversato, il Novecento. Sono impressioni raccolte dal finestrino di un treno in corsa, da un solitario alloggio o da una passeggiata nella natura; riflessioni sui luoghi, la loro storia e i loro abitanti, dalla Spagna al Portogallo, fino all’Egitto e al lontano Nord, da Bursa a Belgrado, fino alla Bosnia e alla città di Sarajevo.

I tempi di Anika

«In ogni donna c’è un diavolo che bisogna ammazzare o con il lavoro o con i parti o con tutte e due le cose» insegna un vecchio detto serbo. Ma Anika è un diavolo potentissimo che non si lascia domare e porta la rovina intorno a sé esercitando una sorta di magia erotica. Questo racconto, dove Andric ha dispiegato tutta la sua potenza di narratore, è la cronaca degli eventi tenebrosi che si svolsero ai «tempi di Anika». «Da quando era stata fondata quella città, da quando la gente nasceva e si sposava, non c’era mai stato un corpo simile, mai una simile andatura e un simile sguardo. Tutto ciò non era nato e non s’era sviluppato in rapporto con quanto lo circondava. Era capitato lì da chissà dove». Questo pensò Alibeg, governatore di uno sperduto paese della Serbia dove si era insediata la magia di Anika, colei che meditava «male e sventura come altri pensano alla casa, ai figli e al pane». Assistita da due cortigiane, nella sua casa discosta dal paese, Anika riceveva gli uomini, tutti gli uomini, e li incantava. Quel suo corpo mirabile era diventato un magnete che attirava a sé i sogni, gli odi e i desideri di un intero paese.

La vita di Isador Katanic

Isidor Katanic è un anonimo impiegato che vive a Belgrado, dove ha avuto la disgrazia di incontrare Margita. Nel matrimonio con la donna naufragano anche i suoi ultimi sogni di gioventù, quando aspirava di poter diventare pittore, cantante d’opera, forse anche poeta, senza immaginare che sarebbe stato solo un calligrafo che dubitava anche della sua bella bella scrittura. Il premio Nobel Ivo Andric ci racconta la parabola di un uomo ordinario tra le due guerre mondiali in una Belgrado occupata: la storia del riscatto di un’intera esistenza ha inizio sulle sponde del fiume Sava e si conclude con la presa di coscienza di poter cambiare il mondo.

Litigando contro il mondo

Ambientati tra Sarajevo e Visegrad agli inizi del secolo scorso, i sette racconti di questa raccolta sono accomunati dalla giovane età dei loro protagonisti, invariabilmente chiamati a fare i conti con le difficoltà e i turbamenti della fase più cruciale dell’esistenza. E a confrontarsi per la prima volta con le evidenze di un mondo, quello degli adulti, che ancora non conoscono, e che si rivela loro alternando l’incanto della scoperta al dolore per i sogni infranti e le molte attese deluse. Sono proprio questi momenti fatali, momenti che spesso affidiamo, più o meno consapevolmente, ai più remoti anfratti della nostra memoria, a occupare il centro, a rappresentare la costante di questa narrazione intensa ed evocativa. Ed è la straordinaria sensibilità narrativa di Andric a farli riaffiorare nuovamente puri, come un distillato d’esperienza, e a suggerirci quanto importanti e necessari siano quei dilemmi, paure e battaglie che, mentre varcavamo la linea d’ombra che immette nell’età adulta, hanno portato ciascuno di noi, anche solo per un attimo, a litigare con il mondo.

Racconti francescani

Ambientati tra Sarajevo e Visegrad agli inizi del secolo scorso, i sette racconti di questa raccolta sono accomunati dalla giovane età dei loro protagonisti, invariabilmente chiamati a fare i conti con le difficoltà e i turbamenti della fase più cruciale dell’esistenza. E a confrontarsi per la prima volta con le evidenze di un mondo, quello degli adulti, che ancora non conoscono, e che si rivela loro alternando l’incanto della scoperta al dolore per i sogni infranti e le molte attese deluse. Sono proprio questi momenti fatali, momenti che spesso affidiamo, più o meno consapevolmente, ai più remoti anfratti della nostra memoria, a occupare il centro, a rappresentare la costante di questa narrazione intensa ed evocativa. Ed è la straordinaria sensibilità narrativa di Andric a farli riaffiorare nuovamente puri, come un distillato d’esperienza, e a suggerirci quanto importanti e necessari siano quei dilemmi, paure e battaglie che, mentre varcavamo la linea d’ombra che immette nell’età adulta, hanno portato ciascuno di noi, anche solo per un attimo, a litigare con il mondo.

 

IL PONTE

TRASPOSIZIONI CINEMATOGRAFICHE E TEATRALI

All’inizio degli anni 10 di questo secolo il regista bosniaco naturalizzato serbo Emir Kusturica annuncia l’intenzione di fare un film tratto dal libro. Il progetto è mastodontico e prevede la costruzione di una intera città di pietra destinata a essere la scenografia della pellicola; Kusturica afferma  “Andrić è il più grande artista che sia vissuto su questo territorio. E questa città è un monumento al più grande artista che abbiamo mai avuto”.

La realizzazione si rivela però troppo complessa e costosa. Nel 2014 regista decide quindi di trasportare il romanzo di Andric a teatro trasformandolo in un’opera lirica: il progetto prevede regia e libretto curati dallo stesso regsita e musiche curate da  Dejan Saparavalo violinista e compositore che ha già collaborato a molti film di Kusturica. L’opera viene commissionata dal teatro la Fenice di Venezia che l’annuncia per il 2016. Dopo una prima comunicazioni di ritardo nella realizzazione si sono però perse le traccia del progetto