IL LIBRO

Il romanzo è l’opera prima del giornalista J. R. Moehringer. In esso l’autore ripercorre una parte della sua vita, dai sette ai venticinque anni di età, raccontando il suo percorso per diventare uomo e di come gli avventori del bar Dickens lo abbiano traghettato dalla fanciullezza all’età adulta.

LA TRAMA

J.R. cresce catturato da una voce. La voce di suo padre, un discjockey di New York che ha preso il volo prima che lui pronunciasse la sua prima parola. Con l’orecchio schiacciato contro la radio, vorrebbe spremere da quel timbro caldo i segreti dell’identità e dell’universo maschili. Sua madre è il suo mondo, è la sua roccia, ma lui cerca anche qualcosa di più, qualcosa che riesce ad avvertire solo in quella voce. A otto anni, quando anche la vo¬ce alla radio scompare, J.R. scappa disperato fino al bar all’angolo, e lì scopre un nuovo mondo, e un coro turbolento di nuove voci. Quelli che si rifugiano al «Dickens» per raccontare le proprie storie o scordare i propri guai sono poliziotti e poeti, allibratori e soldati, star del cinema e pugili suonati. E poiché si diventa grandi per imitazione, a ciascuno di questi uomini J.R. ruberà qualcosa, diventando un piccolo «ladro di identità». Appassionato e malinconicamente divertente, l’avvincente racconto della lotta di un ragazzo per diventare uomo, di un turbolento amore tra una madre e il suo unico figlio, ma anche un indimenticabile ritratto di come gli uomini rimangano, nel fondo del loro cuore, dei ragazzi perduti.

L’INCIPIT

“Ci andavamo per ogni nostro bisogno. Quando avevamo sete, naturalmente, e fame, e quand’eravamo stanchi morti. Ci andavamo se eravamo felici, per festeggiare, e quand’eravamo tristi, per tenere il broncio. Ci andavamo dopo i matrimoni e i funerali, a prendere qualcosa per calmarci i nervi, e appena prima, per farci coraggio. Ci andavamo quando non sapevamo di cos’avevamo bisogno, nella speranza che qualcuno ce lo dicesse. Ci andavamo in cerca d’amore, o di sesso, o di guai, o di qualcuno che era sparito, perché prima o poi capitava lì. Ci andavamo soprattutto quando avevamo bisogno di essere ritrovati.”

L’AUTORE

Lo scrittore e giornalista J. R. Moehringer è nato a New York il 7 dicembre del 1964. Diplomatosi alla Yale University, dal 1994 lavora come corrispondente per il “Los Angeles Times”. Già vincitore del  PEN  Literary Award e del Livingston Award for Young Journalists, nel 2000 si è aggiudicato il Premio Pulitzer per il Giornalismo di approfondimento e costume (feature writing) per i suoi reportage su Gee’s Bend, una isolata comunità fluviale dell’Alabama dove vivono tuttora molti discendenti di schiavi. La sua carriera di scrittore inizia nel 2005 con la pubblicazione de “Il bar delle grandi speranze” (“The tender bar”), un romanzo di vita dalle tinte autobiografiche accolto dal “New York Times” come uno dei migliori libri del 2005. È noto al grande pubblico anche per aver lavorato come ghostwriter e contribuito in modo sostanziale allo straordinario successo di “Open”, la biografia del tennista e sportivo statunitense Andre Agassi uscita nel 2009 e divenuta un caso editoriale internazionale. Nel 2012 è stato pubblicato negli Stati Uniti “Pieno giorno”, un romanzo in cui vengono narrate le gesta del celebre scassinatore William “Willie” Sutton (1901-1980), ribattezzato ‘l’Attore’.

OPERE DI MOEHRINGER

Le altre opere dell’auore dedite in Italia sono

COME GHOST WRITER
Andre Agassi, Open. La mia storia, (2012)

Titolo originale: Open: An Autobiography
Costretto ad allenarsi sin da quando aveva quattro anni da un padre dispotico ma determinato a farne un campione a qualunque costo, Andre Agassi cresce con un sentimento fortissimo: l’odio smisurato per il tennis. Contemporaneamente però prende piede in lui anche la consapevolezza di possedere un talento eccezionale. Ed è proprio in bilico tra una pulsione verso l’autodistruzione e la ricerca della perfezione che si svolgerà la sua incredibile carriera sportiva. Con i capelli ossigenati, l’orecchino e una tenuta più da musicista punk che da tennista, Agassi ha sconvolto l’austero mondo del tennis, raggiungendo una serie di successi mai vista prima.

 


Pieno giorno (2012)

Titolo originale: Sutton
Una storia che comincia e finisce in un giorno. Una storia che dura una vita. Si può rivivere una vita in un giorno? Si può. Accade a New York, il giorno di Natale del 1969, a Willie Sutton, uscito da poche ore dal penitenziario di Attica dopo che il governatore Rockefeller gli ha concesso la grazia per motivi di salute. Questa storia è tante storie. Tutte vere. O forse no. È una storia che comincia agli albori del ventesimo secolo, quando Willie evade dal grembo della Madre. È una storia che comincia nel 1919, quando lo sguardo di Willie incontra l’oro negli occhi di Bess. È una storia che comincia nel 1969, l’anno dell’uomo sulla Luna. È una storia di astronauti e di sirene, di guardie e di ladri, di magnati e di giardinieri, di prostitute e di galeotti. È una storia in fuga, da Sing Sing e dalla solitudine, dalla povertà e dalla mancanza d’amore. È una storia di libri, perché i libri ti cambiano la vita. È una storia di soldi, maledetti soldi. È una storia di banche, maledette banche. Perché è nelle banche che ci sono i soldi, ed è per questo che Willie Sutton le rapina. Con una pistola che non ha mai sparato, e un travestimento ogni volta diverso. Perché lui è Willie l’Attore, e recita dal vivo sul palcoscenico del crimine. Un eroe – o un antieroe – sulle strade della Grande Mela, insieme a un Giornalista e un Fotografo. Guidati da Willie sulle tracce del suo passato, i due hanno solo un giorno per ottenere la storia da prima pagina che vuole il giornale. Ma anche Willie vuole una storia.

Oltre il fiume (2014)

Mary Lee è fatta di cerchi. Il suo corpo è tondo, la sua faccia è tonda, il suo fiume è tondo. Nella vita di Mary Lee tutto è tondo, perché è solo alla fine di qualcosa – un secolo, una storia, una frase – che ne comprendi veramente l’inizio. Mary Lee sta sulla riva del fiume di Gee’s Bend e aspetta. Spera che il traghetto non arrivi, ma se arriverà, ci salirà. Tremerà perché non sa nuotare e non riesce a dimenticare le molte volte in cui ha attraversato questo brutto fiume marrone solo per trovare ancor più bruttezza sull’altra riva. Ma la paura non ha mai vinto contro Mary Lee, e non c’è fiume che possa fermarla. Anche se questa mattina il suo pensiero giusto le dice che qualcosa è in arrivo, qualcosa di grosso. Forse un traghetto. Forse la morte. Forse la fine del suo santuario sul fiume, l’unica casa che abbia mai conosciuto. Sembra tutto sempre lo stesso qui a Gee’s Bend, in Alabama. Qui la guerra civile è arrivata e se n’è andata, ma gli schiavi sono rimasti, e i loro figli, e i loro nipoti, e i pronipoti, e così via, fino a oggi. Qui si sono fatti conquistatori. Sono sopravvissuti ai padroni, si sono ripresi le piantagioni e ne hanno ricavato di che vivere in splendido isolamento: una grande famiglia unita dagli stessi pochi nomi e dallo stesso pugno di leggende. In parte è il fiume stesso a isolarli, in parte è una questione di personalità. Ma sono soprattutto i bianchi ad aver fatto il possibile per tenerli separati, più segregati di una colonia di lebbrosi. E adesso, all’improvviso, vogliono portare a Gee’s Bend un traghetto nuovo fiammante. Come Dio, il fiume è qualsiasi cosa ne dica chi lo ama o chi lo teme: selvaggio e calmo, crudele e gentile. Si muore molte volte nel corso di una vita, e Mary Lee sa che ogni morte è un’illusione.


Il campione è tornato (2015)

Titolo originale: Resurrecting the champ
“Ogni uomo è un mistero. È questo che mi ha insegnato Campione. La maturità è sapere quando risolvere il mistero di un altro uomo e quando rispettarlo”. Non sono solo la passione per la boxe e l’istinto da giornalista a mettere J.R. Moehringer sulle tracce di Bob Satterfield, uno dei pesi massimi più forti degli anni Quaranta e Cinquanta, scomparso dalla scena all’improvviso. È anche una sorta di richiamo, quasi un’ossessione. Ed è solo dopo aver esplorato obitori, chiese, ospedali, bassifondi, biblioteche, palestre, archivi di polizia che arriverà a scoprirne la ragione, e a imparare molto più di quanto si aspettasse sulla boxe e sulla vita. La sua ricerca lo porta sui marciapiedi di una città del Midwest, dove incontra Campione, un senzatetto ex pugile che dice di essere Satterfield. E di lui infatti è in grado di raccontare ogni incontro, ogni pugno, ogni vittoria. “Il più grande puncher che si sia mai visto”, come è stato definito, ha due mani enormi e un fisico imponente. Ma è veramente chi dice di essere? Non impari niente finché non sei stanco, ha detto un vecchio pugile, e solo dopo essere sceso nel passato di Campione, scoprendo anche quello che non avrebbe voluto, con molta stanchezza sulle spalle, il giornalista impara che ogni uomo è un mistero. E che siamo tutti in cerca di qualcosa, chi di un padre perduto, chi di un riscatto, e siamo anche disposti a ingannare o a ingannarci, pur di trovarlo. Come Campione. Come Moehringer. Come ognuno di noi.

COME GHOST WRITER
Phil Knight, L’arte della vittoria. L’autobiografia del fondatore della Nike (2016)

Titolo originale: Shoe dog
Giovane, curioso, fresco di laurea in economia, Phil Knight prende a prestito cinquanta dollari dal padre e crea un’azienda con un obiettivo semplice: importare dal Giappone scarpe da atletica economiche ma di ottima qualità. Vendendole dal bagagliaio della sua Plymouth Valiant, nel 1963, il primo anno di attività, Knight incassa ottomila dollari. Oggi le vendite della Nike superano i trenta miliardi di dollari all’anno. In un’epoca di start-up, la Nike di Knight è la pietra di paragone, e il suo swoosh ben più di un semplice logo. Simbolo di grandezza e leggiadria, è una delle poche icone riconosciute istantaneamente in ogni angolo del mondo. Knight, l’uomo dello swoosh, è però sempre stato un mistero. Ora, finalmente, ci racconta la sua storia in un libro di memorie sorprendente, umile, sincero e divertente. Tutto comincia con il classico momento di svolta. A ventiquattro anni, zaino in spalla, parte per un viaggio che attraversa Asia, Europa e Africa, affronta le grandi domande della vita e decide che l’unica strada per lui è un percorso al di fuori dei binari convenzionali. Non vuole lavorare per una grande azienda, quindi realizzerà qualcosa di suo, che sia nuovo, dinamico, diverso. Knight parla degli enormi rischi che ha affrontato nel suo cammino, delle umilianti battute d’arresto, dei concorrenti senza scrupoli, dei tanti che dubitavano di lui e lo avversavano, dell’ostilità delle banche, ma anche dei trionfi entusiasmanti e delle volte che se l’è cavata per un soffio. Ma ricorda soprattutto i rapporti fondamentali che hanno forgiato il cuore e l’anima della Nike: quello con il suo ex allenatore, l’irascibile e carismatico Bill Bowerman, e con i suoi primi dipendenti, un gruppo eterogeneo di genialoidi diventato ben presto una confraternita di appassionati dello swoosh. Insieme, imbrigliando la carica elettrizzante di una visione audace e la fiducia condivisa nella forza trasformatrice dello sport, hanno creato un marchio, e una cultura, che hanno cambiato ogni cosa.

COME GHOST WRITER
Principe Harry, Spare. Il minore (2023)

Titolo originale: Spare
Per la prima volta, il principe Harry racconta la sua storia. È stata una delle immagini più strazianti del Ventesimo secolo: due ragazzini, due principi, che seguono il feretro della madre sotto gli occhi addolorati e sgomenti del mondo intero. Mentre si celebrava il funerale di Diana, principessa del Galles, miliardi di persone si chiedevano quali pensieri affollassero la mente di William e Harry, quali emozioni passassero per i loro cuori, e come si sarebbero dipanate le loro vite da quel momento in poi. Finalmente Harry racconta quella storia, la sua. Prima di perdere la madre, il principe Harry, all’epoca dodicenne, era considerato l’allegra e spensierata “riserva” (in inglese spare) del più serio erede al trono. Quel lutto, però, ha cambiato ogni cosa. Harry si è trovato ad affrontare problemi scolastici e a combattere contro la rabbia e la solitudine. E avendo incolpato la stampa per la morte della madre, faticava ad accettare una vita sotto i riflettori. A ventun anni è entrato nell’esercito. La disciplina gli ha dato stabilità, e le missioni svolte hanno fatto di lui un eroe in patria. Ma ben presto si è ritrovato più smarrito che mai, affetto da un disturbo da stress post-traumatico e da paralizzanti attacchi di panico. E, soprattutto, non riusciva a trovare il vero amore. Poi ha conosciuto Meghan. Il mondo è rimasto conquistato da quella storia da film e ha gioito per il loro matrimonio da favola. Eppure, fin dal principio, Harry e Meghan sono stati presi di mira dalla stampa e hanno dovuto subire ondate di insulti, razzismo e menzogne. Vedendo la moglie soffrire e temendo per la loro sicurezza e salute mentale, Harry si è trovato costretto a lasciare il paese per impedire che la storia, tragicamente, si ripetesse. Nei secoli, in pochi avevano osato abbandonare la famiglia reale. L’ultima era stata proprio sua madre.

IL FILM

Nel 2021 George Clooney dirige “The tender bar” film tratto dal romanzo omonimo.

Nei panni di Moehringer da giovane c’è Tye Sheridan; Ben Affleck interpreta invece lo zio Charlie. Nel cast nei panni del nonno Christopher Loyd, l’indimenticato Doc di Ritorno al futuro.

VIDEO INTERVISTE

Qui Moehringer parla di com’è nato il romanzo

Qui invece poarla della sua prima grande storia giornalistica

Qui un’intervista più lunga (solo per chi conoscel’inglese  in inglese con sottotitoli in inglese) in cui parla ampiamente di tutta la sua produzione letteraria e giornalistica

LA CURIOSITA’: L’ENDORSMENT DI ALESSANDRO BARICCO

In alcune fascettine dei libri di Moehringer viene citata l’affermazione di Alessandro Baricco riferita all’autore di tender Bar “è di una bravura mostruosa” nonostante lo statunitense sia lontano anni luce dallo scrittore italiano.

La citazione è tratta da un articolo di Baricco per il supplemento domenicale di Repubblica del 2011 in cui l’autore torinese inseriva tra i 50 libri più belli letti negli ultimi 10 anni inseriva Open, la biografia di Agassi scritta da Moehringer. Qui di seguito l’articolo completo (che spero vi invogli a leggere la biografia)

“Vi racconto i migliori cinquanta libri che ho letto negli ultimi dieci anni. Così vi parlo di quello che mi piace e non mi piace del mondo. Non i libri più belli della mia vita, quella sarebbe un’altra cosa”. Alessandro Baricco incomincia il suo viaggio a puntate ogni domenica su “Repubblica” Primo titolo: “Open” di Andre Agassi, il ragazzo che odiava il tennis ma doveva finire la partita “che poi è la stessa che giochiamo tutti”
(Comprato perché me l’hanno consigliato due amici, tutt’e due più giovani di me, tutt’e due sceneggiatori. Sempre fidarsi degli sceneggiatori, quando leggono)
Beh, non l’ha scritto lui, d’accordo. L’ha scritto J. R. Moehringer, uno che nel 2000 ha vinto il Pulitzer per il giornalismo: e che, obbiettivamente, è di una bravura mostruosa. Non bisogna pensare però che si sia limitato a fare da ghostwriter: gli è riuscito di dare ad Agassi una voce (una vita l’aveva già, e micidiale) e una diabolica abilità nel raccontare. Risultato: di Moehringer ti scordi subito e ti ritrovi in viaggio con un Agassi che non ti saresti mai aspettato e che non smette un attimo di parlare. Se parti, non scendi più fino all’ultima pagina. Roba che i famigliari protestano e sul lavoro non combini più un granché. In genere, quando un libro riesce a ottenere un simile risultato contiene una di queste quattro domande: chi è l’assassino? Il protagonista troverà se stesso? Ma alla fine si sposeranno? Chi dei due vincerà? Open ne contiene tre su quattro, e le intreccia molto bene: le possibilità di sottrarsi alla trappola sono pari a zero. (Manca l’omicidio, ma se si largheggia un po’, l’idea di far allenare il proprio figlio di sette anni tirandogli 2.500 palline al giorno assomiglia molto a una specie di avvelenamento metodico, e quella era l’idea di educazione che aveva in testa il padre di Agassi). Adesso che sono stato ad ascoltarlo, so che Agassi ha vissuto come giocava a tennis, cioè i piedi ben dentro al campo, ad aggredire la pallina mentre sale (tutti buoni a prenderla mentre scende), immaginando tutto a una velocità irragionevole, e collezionando sciocchezze mostruose e invenzioni sublimi. Intanto che faceva tutto questo, cercava un senso alla sua vita, e se si ritorna con la mente a quel pagliaccio in hot pants di jeans e capelli tinti sparati sulla testa che giocava come un flipper, la cosa risulta poco credibile: ma non se apri il libro e gli dai una chance. Alla fine bisogna arrendersi, sembrava deficiente ma non lo era. O almeno: era intelligente in un modo molto barbaro, e quindi affascinante. Non sarebbe poi stato molto differente, il giovane Werther, se solo nasceva nel 1970 a Las Vegas. Tutto molto superficiale, ma quando ad esempio ti fa capire le porzioni di vita che possono viaggiare in una pallina da tennis che schizza su del cemento, in assenza di qualsiasi profondità, e nell’ossessiva ricerca di poche linee dipinte di bianco, un’idea te la fai, molto fisica, di come l’infinito possa correre sulla pelle del mondo senza prendersi la briga di scendere in qualche altro posto, nel sottosuolo. Serve giusto una mente altrettanto veloce e leggera, e poi tutto ritorna a posto. Agassi aveva (ha) una mente di quel tipo, e ce l’avevano (magari in modo un po’ più rudimentale) quelli intorno a lui. (Gente capace di dire frasi come questa: «Andre, certe persone sono termometri, altre termostati. Tu sei un termostato. Non registri la temperatura in una stanza, la cambi». Brutale, semplicistico, ma anche vero, in un certo modo, e molto utile se te lo dicono quando stai per uscire per la prima volta con la donna dei tuoi sogni). Pallina dopo pallina, volano le domande e le risposte sulla vita, schizzando sul cemento dei pensieri, e alla fine quella a cui assisti è un’unica, grande, affascinante partita giocata da un ragazzo contro il buco nero che si porta dentro: che poi è la stessa partita che giochiamo tutti, lo si voglia o no. Ne ho letto infiniti resoconti, e quello di Agassi ha una sua elementare bellezza sintetica che vale più di mille centrini letterari (romanzi all’uncinetto, non so se mi spiego). Sul finire della carriera, quando ormai vinceva e perdeva da secoli, quando aveva già ricominciato da capo un paio di volte, quando stava in campo solo grazie alle iniezioni di cortisone, i giornalisti iniziarono a chiedergli come mai non smetteva. Era una domanda giusta, giustamente porta a uno che non aveva mai smesso di pensare “Io odio il tennis”. Ecco la risposta di Agassi: «È così che mi guadagno da vivere. E poi mi resta ancora del gioco. Non so quanto, ma un po’ ce n’è». Ho in mente decine di domande a cui vorrei esser capace di rispondere con una così barbara esattezza. (Se ad esempio mi chiedete perché non smetto di scrivere, vi beccate una conferenza di almeno mezz’ora). Tutto sommato, l’unica cosa del libro che mi è spiaciuta è il finale. L’eroe si sposa, vince e scopre se stesso. Lieto fine, ma non è questo che mi è spiaciuto. È che l’eroe scopre il senso della vita iniziando ad occuparsi degli altri, i suoi figli innanzitutto, ma anche gli altri veri: apre una scuola per bambini che non hanno la possibilità di studiare. Volontariato. Tutti felici. Sipario. È che io non ci credo. A me risulta che la ricerca del senso è una sorta di partita a scacchi, molto dura e solitaria, e che non la si vince alzandosi dalla scacchiera e andando di là a preparare il pranzo per tutti. È ovvio che occuparsi degli altri fa bene, ed è un gesto così dannatamente giusto, e anche inevitabile, necessario: ma non mi è mai venuto da pensare che potesse c’entrare davvero con il senso della vita. Temo che il senso della vita sia estorcere la felicità a se stessi, tutto il resto è una forma di lusso dell’animo, o di miseria, dipende dai casi. Peraltro, è anche possibile che mi sbagli. È giusto un pensiero istintivo — un certo modo di vedere il mondo.